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“Otto sono le ore giornaliere di lavoro, cinque sono i giorni lavorativi della settimana, trecento sessanta tre sono i dipendenti del Lanificio Cerruti; uno sono io, Raphaëlle De Groot, l’artista”.

L’ex residente UNIDEE Raphaëlle De Groot ha pensato a un laboratorio artistico all’interno della routine quotidiana dello stabilimento Lanifico F.lli Cerruti che ha previsto un nuovo spazio per la comunicazione tra gli operai.

Il progetto, finanziato dal Fondo Sociale Europeo, ha avuto inizio con la partecipazione di Raphaëlle a un tirocinio intensivo della durata di tre settimane.
L’artista ha invitato gli operai a condividere pensieri, riflessioni e idee. Il processo di ascolto ha aperto nuovi canali di comunicazione, cosa che ha reso gli operai entusiasti dell’iniziativa.

Storia di lavoro

Luglio 2002: un’artista di Montreal (Canada) parte per l’Europa, arriva in Italia, a Biella, alla Cittadellarte – Fondazione Pistoletto per un soggiorno di quattro mesi. Frequenta il Centro di documentazione sindacale della Camera del lavoro di Biella e decide di fare un apprendistato di tre settimane al Lanificio F.lli Cerruti per conoscere più da vicino la realtà della manifattura tessile.
Nei mesi di settembre e di ottobre visita i reparti della fabbrica, parla con gli operai, studia il loro lavoro, frequenta la mensa e condivide i loro stessi turni. Scrive e riflette sulla sua esperienza. Desiderosa di dare un seguito a questa prima “immersione” approfitta dell’apertura, della disponibilità e dell’interesse della Cittadellarte – Fondazione Pistoletto e del Lanificio F.lli Cerruti per avviare un vero e proprio progetto finanziato dal Fondo Sociale Europeo.

Novembre 2003: la giovane “apprendista”, Raphaëlle di nome, torna quindi per approfondire la sua ricerca in fabbrica con l’appoggio di una squadra di collaboratrici. Si reca al Lanificio con Sandra e Julia — tuta da lavoro, attrezzi, trapano — e tra lo stupore e le iro- nie degli operai, fornisce ogni reparto di una “cassetta della posta”, poi scompare. Questa cassetta permette all’artista di insinuarsi all’interno della manifattura, serve ad aprire una linea di comunicazione tra lei e gli operai, sarà la voce discreta e anonima di ognuno di loro.



Gennaio 2004
, primo passo: distribuendo personalmente delle schede a ogni operaio e operaia, pone la prima domanda: “di che colore volete la cassetta del vostro reparto?”. Così parte una storia. Ogni reparto ha una cassetta, ogni cassetta ha un colore. Nessuno sa dove Raphaëlle vuole arrivare e lei non ci tiene a spiegarlo forse nemmeno a capirlo: cerca.

Seconda tappa: distribuisce una nuova scheda ed una penna, chiedendo a ognuno di scrivere “da 0 a 5 parole” che rappresentino il proprio lavoro. Ogni intervento è sempre intercalato da un silenzio, da un periodo in cui Raphaëlle scompare, come per lasciare ai suoi interlocutori il modo ed il tempo di riflettere, di pensare al perché di quelle azioni, al perché di quelle domande. Si prende confidenza con il gioco, cresce la curiosità.

A questo stadio del processo vengono anche invitati cinque esperti in psicologia e sociologia del lavoro, per far loro visitare il luogo dell’intervento, per parlare con i lavoratori di questa esperienza, per esaminare i risultati delle schede e infine trarre delle conclusioni personali da dibattere intorno ad una tavola rotonda.
Una terza scheda viene distribuita: contiene le parole che gli stessi operai hanno scritto di loro pugno. Sorridono. Raphaëlle chiede un po’ di più questa volta: “scrivete qua una domanda poi io vi darò delle macchine fotografiche con cui potrete fare delle foto che risponderanno alle domande stesse”.

Mentre sto scrivendo queste macchine fotografiche stanno fissando delle immagini e questo lavoro scorre come un fiume in piena ricco di riflessioni, in grado di aprire nuovi canali di comunicazione non più soltanto tra Raphaëlle e gli operai ma anche tra gli operai stessi, che probabilmente vedono in lei la possibilità di comunicare diversamente fra loro.

Nel frattempo intorno a Raphaëlle il lavoro di squadra diventa frenetico: Julia si occupa di raccontare il processo in corso scattando centinaia di fotografie; Anna fruga nell’archivio del Centro di documentazione sindacale della Camera del lavoro di Biella alla ricerca di testimonianze di vita vissuta dalle operaie attive fra gli anni ’40 e ’60; Sandra ed io ci arrovelliamo per creare l’allestimento della mostra che racconterà questo progetto; Sara intanto impazzisce per raggruppare ed organizzare tutto il materiale che serve a realizzare la pubblicazione.
Questo lavoro è fatto con la materia di cui la vita stessa si nutre.
(Mirko Sabatini)

Alcune riflessioni…

“Il punto di partenza del nostro percorso di riflessione riguarda la natura dell’intervento artistico in sé. In cosa consiste la dimensione etica ed estetica dell’opera di Raphaëlle al Lanificio Cerruti?”

“E’ il suo modo di approcciarsi agli altri che rende artistico l’intervento. La mancanza di finalità specifiche lo fanno diventare un treno che passa ma che non ha direzioni, un treno che può essere preso e che offre la possibilità, a coloro che sono coinvolti nell’evento- intervento e che decidono di salirvi, di intraprendere un viaggio innanzitutto dentro se stessi”.
“Un’opera d’arte che ha per oggetto il sociale può far scaturire le più diverse emozioni, le reazioni alla performance artistica possono essere divergenti, i significati attribuiti possono essere differenti per l’autore e per gli osservatori. Il rischio è che gli attori organizzativi del Lanificio, lavoratori e management, non colgano le opportunità insite nel percorso, aspettino la meta, non facciano loro stessi succedere le cose, non vedano in quello che accade un’occasione per riflettere e prendere coscienza, non reagiscano consapevolmente all’opportunità offerta dall’artista, non si facciano le domande da soli, non facciano il percorso da soli, desiderando loro stessi farlo, come Raphaëlle auspica”.
di Claudia Piccardo, psicologa delle organizzazioni, Facoltà di Psicologia, Torino e Filippo Pellicoro, psicologo, Dipartimento di Psicologia, Torino


“L’artista ha messo a frutto la capacità di ascolto per incontrare veramente l’altro nella sua situazione concreta”.

Nell’artista ho colto il sapere e il volere incontrare e ascoltare veramente l’altro, senza pensare alla risposta da dare e senza selezionare le parole dell’interlocutore, nonché la capacità di vedere la realtà in modo oggettivo. Quando l’artista ha chiesto ai lavoratori di esprimere il vissuto del proprio lavoro con cinque parole, ciascuno è dovuto entrare nel profondo di se stesso, andare oltre la spontaneità, cogliendo la realtà, a volte anche cruda e pesante, della propria condizione lavorativa. Nell’interazione fra artista e lavoratori, i vari processi singoli, i diversi stati d’animo entrano in un evento organico. Nell’arte entra, come attraverso una finestra spalancata, la realtà vissuta, subita, sofferta o accolta volentieri. L’artista è diventata ‘tramite’ della realtà: in questa sintesi si compie l’evento. La vita di fabbrica da oggetto dell’arte diventa soggetto protagonista che esprime in modo esplicito, con parole manifeste, il vissuto dei lavoratori spesso crudo e ben lontano dal permettere di sviluppare le proprie capacità, ma solo i lavoratori possono dare orientamenti validi, perché vissuti dal di dentro, a chi ha potere di ascoltare e quindi di innovare l’organizzazione della fabbrica”.
di Guido Lazzarini, sociologo, Facoltà di Economia, Torino


“In un contesto sociale come quello della fabbrica, in cui ogni elemento dell’attività è eterodiretto e prescritto e non è prevista facoltà di scelta, l’opportunità di essere finalmente dei decisori stimola la partecipazione attiva dei lavoratori”

“Sia le donne sia gli uomini (…) dimostravano peraltro grande interesse per i contenuti del lavoro dell’artista e per la sua vita. Così, chiedendole del suo lavoro, hanno preso a parlare del proprio, marcandone le differenze soprattutto in termini di “libertà”. Invidio Raphaëlle, ha esclamato un giorno un’operaia, lei gira il mondo e ovunque lascia un segno. Io invece me ne sto qui dentro, invisibile. Poi sono venuti i giorni della sistemazione delle cassette di legno grezzo, essenziali e quasi austere nella forma, che hanno acceso la fantasia dei lavoratori. A che cosa servono?, domandavano ripetutamente all’artista. (…) Le risposte di Raphaëlle sono sempre state volutamente evasive, poiché la logica del progetto da lei elaborato vuole che i partecipanti al gioco scoprano poco alla volta ciò che succede e che l’artista stessa non abbia un piano preordinato fin dall’inizio da seguire, ma elabori di giorno in giorno le mosse successive sulla base dei risultati e degli stimoli dell’interazione instaurata in fabbrica. La curiosità si alimenta e mette in moto la fantasia, accende il dialogo con i compagni, coinvolge l’artista. Ed è a questo punto che da semplici spettatori (sebbene non passivi) i lavoratori sono stati trasformati in veri e propri partecipanti (…)”.
di Maria Luisa Bianco, sociologa, Facoltà di Scienze Politiche, Torino


“L’artista e gli operai “creano insieme”, nessuno sa dove si sta andando, ma camminare insieme è già lavoro artistico”.

“Lei dona uno stimolo e loro rispondono; così nasce il dialogo. Gli “abitanti” dei reparti hanno iniziato a comunicare tra di loro, gli stimoli dati hanno suscitato curiosità; gli operai hanno iniziato a chiedere quali colori erano stati scelti negli altri reparti e successivamente quali parole simili, o diverse, avevano scritto i componenti degli altri gruppi”.
di Silvana Sanella, psicologa del lavoro


“Nulla è diventato più invisibile al nostro immaginario della grande fabbrica e del lavoro operaio”

“Raphaëlle de Groot — non so se è quello che lei ha in mente — è una giovane artista che mi sembra lavorare a dar forma all’invisibile”. “E poi — poi mi ritrovo con le schede degli operai, e delle operaie, in mano. Le schede con le quali “scelgono i colori” — è un’esplosione di desiderio represso, quella scelta dei colori, un grido di libertà: “arancione con una grossa margherita al centro” – è l’immaginazione che si libera all’improvviso, tra glicine e oro e strisce zebrate per terminare con un arcobaleno colore della pace. Procedo. Il secondo pacco di schede. Il lavoro. Le parole sono di piombo. Da 0 a 5 parole per rappresentarlo, il proprio lavoro. Monotono. Ripetitivo. C’è chi, dopo la seconda parola, non riesce ad andare avanti, come schiacciato dalla monotonia e dalla ripetitività del lavoro. Triste. (…) Ma qui una scheda laconica racconta un’altra storia: “Tristezza, noia, soldi”. Trasformo mentalmente quella sequenza in equazione: “Tristezza + soldi = noia”? “Tristezza = noia + soldi”? “Soldi = tristezza + noia”? Non riesco a dar conto della combinazione dei fattori. C’è anche “umiliante”. Umiliante? Perché mai? Eppure la parola ritorna spesso, troppo spesso per essere casuale. Talvolta anche: “senza dignità”. Le rappresentazioni positive del lavoro sono più astratte: non parlano del lavoro in sé ma dei suoi attributi: piacevole, interessante; creativo, impegnativo. Oppure parlano di ciò che il lavoro procura: “futuro, benessere, tranquillità”. Talvolta sono degli enunciati morali: “sacrificio/soddisfazione”. O razionali: “Necessità x vivere”. La concretezza di un lavoro vissuto in modo positivo emerge, curiosamente, attraverso un termine: “allegria”. “Mi divertono i miei colleghi”. O semplicemente: “risate”. O, in modo elaborato: “Mi piace stare in compagnia per divertire e scherzare con tutti” (…). Concrete sono invece le parole che descrivono le condizioni di lavoro: rumoroso. Polveroso. Sporco. Le rammendatrici sono una femminile aristocrazia operaia: il loro lavoro è interessante, pieno di responsabilità, impegnativo, soddisfacente. I tessitori non sembrano invece essere in condizioni molto diverse da quelli cantati da Heine: lavoro faticoso, poco pagato, stressante, e ancora dobbiamo dire: “Meno male che c’è”.”
di Chiara Sebastiani, Facoltà di Scienze Politiche, Bologna