Rassegna Architettura di Svolta 2009
programma delle attivita' e degli incontri (maggio-dicembre)

La Rassegna Architettura di Svolta è rivolta a professionisti e tecnici delle costruzioni per sviluppare un nuovo approccio all’architettura attraverso l’arte in un processo globale di trasformazione sociale responsabile. Un’iniziativa a cura di ufficioarchitettura di cittadellarte + n.o.v.a.civitas srl.

Nell’ambito della rassegna 2009, l’ufficioarchitettura di cittadellarte propone eventi e attività per favorire un’architettura che sia parte integrante di un più grande sistema sociale che tende all’equilibrio naturale e per sensibilizzare il cittadino al consumo critico e consapevole di un prodotto che unisce alta qualità e responsabilità sociale. Attraverso una mostra di progetti di architettura naturale realizzati in italia, selezionati in collaborazione con ANAB Associazione Nazionale Architettura Bioecologica, una conferenza ed un convegno, la Rassegna Architettura di Svolta offre una panoramica sullo stato dell’arte attuale. Un workshop e cinque visite tecniche guidate hanno lo scopo di favorire l’impiego di tecniche costruttive a secco con l’uso di materiali naturali nell’ambito del processo architettonico. Quattro incontri propongono una reale alternativa all’utilizzo di materiali di origine petrolchimica, attraverso la presentazione di prodotti eco-sostenibili che sono necessari per la costruzione e la riqualificazione di una Architettura eticamente, culturalmente e tecnicamente volta a far tornare il territorio, la città e la casa ad essere un Organismo Vivente.

Letterature di Svolta si fa nomade e coinvolge filosofi, scienziati, psicologi, antropologi, scrittori, artisti. Pone delle domande: perché porre delle domande è un primo passo verso il cambiamento.

Letterature di Svolta ha intervistato nel corso degli anni intellettuali provenienti da differenti aree disciplinari, coinvolgendoli in un ragionamento sul concetto di trasformazione, secondo lo schema di un’intervista che permettesse, in una fase successiva, un confronto immediato tra le singole posizioni.

Quale notizia l’ha colpita ultimamente? Se avesse un potere illimitato, cosa trasformerebbe nelle prossime 24 ore? La trasformazione di un sistema avviene quando almeno una delle sue variabili interne cambia: quali variabili interne del sistema sociale sono attualmente sottoposte a maggiore trasformazione? Quali variabili secondo lei dovrebbero subire maggiore trasformazione? Quale ruolo gioca la letteratura, l’arte, la creatività in un processo di trasformazione? Quale immagine associa alla parola trasformazione? Siamo nel 2068, apre la porta della sua casa, quale scenario le si presenta e quale le piacerebbe immaginare di vedere? Porre delle domande è un primo passo verso un cambiamento: quale domanda fondamentale dovremmo porci in questo momento storico e a chi dovrebbe essere posta?

Si propogono qui di seguito gli estratti delle interviste rilasciate a Letterature di Svolta da Dan Bar- On e Sami Adwan, James Hillman, Pier Aldo Rovatti e Vandana Shiva.


Intervista a Dan Bar-On e Sami Adwan
20 settembre 2006, Torino Spiritualità



Dan Bar-On, Professore di Psicologia presso il Dipartimento di Scienze del Comportamento all'Università di Ben-Gurion.
Sami Adwan, Professore di Educazione presso l'Università di Betlemme. Fondatori e co-direttori di PRIME - Peace Research Institute in the Middle East

Libri consigliati da Dan Bar-On e Sami Adwan:
Dan Bar-On, Sami Adwan, Adnan Musallam, Eyal Naveh, La storia dell’altro, Una città, 2003 José Saramago, Blindness, Harvest Book, 1999 Ghassan Kanafani, Return to Haifa, 1999 Sami Michael, Doves in Trafalgar, 2005

La trasformazione di un sistema avviene quando almeno una variabile del sistema cambia. Quali variabili del sistema sociale ritenete che in questo momento siano soggette a grandi trasformazioni sociali?

Dan Bar-On: Occorre fare un passo indietro per rispondere. C’è stato un momento cruciale nella nostra storia recente: il 1989, quando il regime comunista dell’Europa orientale è crollato. Era sia un'opportunità sia un pericolo. C’era l’opportunità di uscire dalla polarizzazione tra Est e Ovest e tutto ciò che comportava; il mondo avrebbe avuto così la possibilità di affrontare i suoi veri problemi, le malattie, l’ambiente. Purtroppo credo che i paesi capitalisti, soprattutto gli Stati Uniti, abbiano vissuto questi eventi come una vittoria. Invece di analizzare gli aspetti negativi del capitalismo per cercare di modificarli, hanno visto il crollo del comunismo come una vittoria e hanno iniziato così a muoversi verso la globalizzazione, infischiandosene del fatto che in realtà non stanno facendo altro che mantenere il proprio potere, l’asimmetria del potere. Credo sia stata un’opportunità mancata per il genere umano e al momento non vedo delle forze che possano correggere questo errore. Oggi vediamo tutti gli aspetti negativi, che hanno generato molti nuovi scontri. Chiaramente l’11 settembre ha generato un problema reale, ma rafforza anche questa tendenza, la radica ancora di più. Secondo me ci dovrà essere una nuova suddivisione del potere nel mondo e l’Occidente non riuscirà a mantenere il suo ruolo dominante. Io penso che il potere nel mondo dovrà essere ridistribuito in qualche modo, e questo avverrà in modo pacifico, attraverso il dialogo, oppure attraverso la guerra e il conflitto. Purtroppo per ora stiamo seguendo la via del conflitto e della guerra, invece di pensare a come ridividere il potere nel mondo attraverso il dialogo e la comprensione.

Sami Adwan: Vorrei localizzare la mia risposta. Io credo che una variabile importante, che potrebbe davvero migliorare la nostra vita e quella dei nostri figli, è la riumanizzazione dell’umanità. Nel conflitto tra Israele e palestinesi la fonte della disumanizzazione è l’occupazione, per noi ma anche per gli israeliani. Io vedo la disumanizzazione dei bambini israeliani portata dall’occupazione: continuano a essere visti come i cattivi, quelli che uccidono, sparano, distruggono. I Palestinesi li vedono in questi termini. E per i Palestinesi e la loro ri-umanizzazione è necessario essere liberi, liberi nella loro persona e nel luogo in cui vivono: devono avere la libertà di spostarsi, di accedere alle informazioni per sviluppare la propria economia, l’istruzione, il sistema sanitario, la società, per consentire ai propri figli di vivere l’infanzia. Io temo che con il perseverare della situazione attuale sprofonderemo nella vittimizzazione. E noi non vogliamo essere così, non vogliamo ritenerci sempre delle vittime e vederne gli effetti sulla nostra personalità. Vogliamo essere visti come persone in grado di condividere, di essere libere, di condividere la nostra conoscenza, la nostra produzione, vogliamo condividere la responsabilità della nostra regione e del mondo.
Quindi io direi che una variabile importante è porre fine all’occupazione, che porta alla disumanizzazione, e passare alla riumanizzazione. Questo è molto importante. Questo ci porterà a pensare a quanto investire per creare condizioni umane e a quanto effettivamente spendiamo per la disumanizzazione. Sono cifre sconvolgenti. In realtà la riumanizzazione costa molto poco, è più conveniente costruire scuole, belle strade, begli asili, un sistema sanitario efficiente. È meglio che sprecare soldi per la distruzione di massa e il meccanismo della distruzione.
[…] Mi avete chiesto della mia infanzia, io l’ho trascorsa tutta sotto occupazione. Non ho punti di riferimento e non voglio vedere i miei figli e poi i figli e i nipoti dei miei figli imbrigliati nella stessa situazione. Occupazione significa disumanizzazione per entrambe le parti; in modo relativo, diverso, ma credo sia una situazione terribile. Cambiare questa dicotomia vincitore/perdente passando a una situazione di vincitore/vincitore: questa per noi è una buona variabile. Il nostro conflitto, o meglio situazione – conflitto talvolta – influenza tutto il mondo, per via della regione, di coloro che vi vivono, della composizione di questa regione. Questo crea instabilità ovunque. Il conflitto è qui, ma lo si percepisce ovunque.

Dan Bar-On: Rafforza la polarizzazione.

Sami Adwan: Per me è questa la priorità e mi auguro che sarà così. Io ci credo, e questo approccio è un piccolo passo in questa direzione.

Dan Bar-On: C’è un collegamento tra ciò che ha detto Sami e la mia risposta. Se il problema politico israelopalestinese sarà risolto e ci sarà uno stato palestinese, un vero stato palestinese e non alcune regioni slegate le une dalle altre, se la situazione cambierà usciremo dal dibattito politico internazionale e questo ridurrà il potere di coloro che cercano di polarizzare la situazione. Una delle cose che nutre il loro potere è infatti la continuazione di questo conflitto.

(L'intervista è pubblicata su Progetto Arte - Journal 11, cittadellarte edizioni 2007)


Intervista a James Hillmann
20 settembre 2006, Torino Spiritualità

James Hillman, psicologo analista junghiano, insegna presso le Università di Yale, Syracuse, Chicago e Dallas; Presidente della Spring Publications dal 1970

La trasformazione di un sistema avviene quando almeno una delle sue variabile interne cambiano. Quali variabili interne del sistema sociale sono attualmente sottoposte a maggiore trasformazione?

Molte, molte variabili stanno cambiando. Una è l'immigrazione, ovviamente. Un'altra è la corruzione... l'incapacità di regolamentare i capitali. L’incapacità di sottoporti a regole. Questa variabile è molto importante; abbiamo appena visto cosa ha causato in Ungheria. Una terza variabile è la rinuncia del secolarismo, la sconfitta del secolarismo. Capisce a cosa mi riferisco? L’Illuminismo, la perdita di fiducia nell’Illuminismo. Non so se sarete d'accordo con me…

Vorrei riprendere un passaggio della sua lezione di ieri sera [lezione magistrale di James Hillman, Conflitti sulle soglie del mondo infero, Torino Spiritualità, 19 settembre 2006], là dove lei dichiarava che la guerra, in particolar modo le guerre preventive, quelle condotte dagli Stati Uniti, sono conse- guenza di un impoverimento dell’immaginazione del pensiero politico. Io vorrei chiedere se può approfondire questo concetto: che cosa intende per “impoverimento dell’immaginazione”, che forse è un problema di tutte le democrazie occidentali.

Non so se è un problema post.... se è un potenziale problema della democrazia. Lei pensa che sia un problema delle democrazie?

Occidentali, degli Stati Uniti; ma è anche un discorso più generale.

È un’ottima domanda. A cosa pensavano quegli uomini, come Rumsfeld, Hadley, Leumann, quando hanno parlato di manquer d’immaginazione? Di cosa stavano parlando? Io ho fatto un collegamento tra la mancanza d'immaginazione nell'insegnamento della psicologia e l'assenza di immaginazione a livello politico. La cosa più importante per i generali militari che conducono le campagne è riuscire a entrare nella mente dell’altro, che era molto importante per Montgomery con Rommel. Teneva infatti ritratti di Rommel nella sua tenda, così da avere unàimmagine del suo nemico.
[…] Oggi, l’immaginazione dell'Islam, l’immaginazione dell’Occidente rispetto all’Islam, è carente,. non avevamo una lingua comune, né persone che potessero tradurre i messaggi, i testi; non avevamo alcuna informazione sull’altro. Questo perché con una certa dose di hybris, di superbia, non crediamo che queste persone abbiano capacità tecniche; non abbiamo alcuna immaginazione dell’altro. Ora, come si genera tale immaginazione? Io credo sia possibile attraverso l’arte, la letteratura, letture, film, teatro; attraverso lo scambio culturale e lo scambio di studenti, già in giovane età. Solo così possiamo sapere chi è l’altro, comprendere il pensiero dell’altro. E questo processo porta con sé anche un senso di relatività, relativizzazione della propria posizione, il che significa anche umiliazione. È insita anche una certa dose di umiliazione. E questa è la miglior difesa contro la guerra: l’umiliazione della propria posizione, il senso della propria debolezza e vulnerabilità.

Volevo fare ancora una domanda, per quanto riguarda la guerra e l’immaginazione: gli altri, diciamo quelli che hanno scelto di combattere l’Occidente e in particolare l’America, hanno un’immaginazione dell’altro, cioè dell’Occidente, dell’America?

Temo di dover dire che hanno un dogma, non una vera immaginazione. Penso che siano stati istruiti dai Mullah, in scuole particolari a pensare in un certo modo, così come alle Guardie Rosse cinesi è stato insegnato a pensare in un determinato modo. Sono stati indottrinati, mettiamola così. Non si tratta di immaginazione dell’altro. Ricordiamo comunque che è un gruppo molto ristretto di persone; non so quanti miliardi di seguaci della fede islamica esistano, ma la percentuale di veri kamikaze è veramente ridotta.

Lei ha ricordato che immagini e concetti nascono all’interno della nostra mente in un modo sostanzialmente antitetico. Come si concilia questo con una comunicazione, con una cultura sempre più basata sulle immagini? […] Appunto, apparentemente è il contrario, però lei comunque parla di una grossa mancanza di immaginazione e di fantasia in riferimento all’America, dove anche la cultura dell’immagine sembra prevalere. Come è possibile questo?

Diciamo di vivere in una società delle immagini, ma queste non sono immagini. Sono concetti visivi, tentativi visivi di comunicare un concetto. È questo il principio della pubblicità, del branding. Un’immagine, se andiamo indietro nel tempo, è eidolon, “icona”, un concetto che rimanda all’idea greca di poesis, dunque un’immagine poetica. Non deve necessariamente essere scritta come poesia, ma ha una fertilità d’immaginazione in sé. Le immagini come le intendiamo oggi sono immagini ottiche e non immagini oniriche, ad esempio, che hanno la loro fertilità, spontaneità, e implicazioni. È questo che intendo per fertilità. È quindi un’idea molto diversa di immagine. Quando diciamo di vivere in una società dell’immagine, parliamo di un mondo cartesiano fatto di ottica. Non un mondo poetico, nel senso di un mondo immaginativo. È un’idea sottile da cogliere, perché l’abbiamo persa nella nostra immagine. Per esempio, se leggiamo Guerra e pace di Tolstoj, il lettore ha un’immaginazione di Natasha, di Pierre, della scena, della guerra, di tutto. Se si guarda la versione cinematografica – ora non ricordo quale attrice reciti, forse Audrey Hepburn – tutta l’immaginazione è limitata alla memoria visiva. Ecco perché i film non possono fare ciò che invece fa la lettura, eppure riteniamo che siano una forma di immaginazione. Lo sono in un certo senso... solo un regista molto sottile sa rendere un’immagine immaginativa, come ad esempio ha fatto Fellini, che ha saputo sposare l’ottica all’immaginazione. Ma la maggior parte delle immagini sono pura ottica.

(L'intervista è pubblicata su Progetto Arte - Journal 11, cittadellarte edizioni 2007)


 
Pier Aldo Rovatti
3 febbraio 2007, Letterature di Svolta - In primo luogo, Torino



Pier Aldo Rovatti, Professore di Filosofia all’Università di Trieste e direttore di “Aut aut”

Libro consigliato da Pier Aldo Rovatti:
J. Deridda, Donare il tempo. La moneta falsa, Bollati Boringhieri, Torino, 1996

La trasformazione di un sistema avviene quando almeno una delle due variabili interne cambia: quali variabili interne del sistema sociale sono attualmente sottoposte a maggiore trasformazione? E quali invece pensa dovrebbero subire maggiore trasformazione? E quale tipo di trasformazione?


Quindi mi viene in mente che uno può rispondere nel micro, nel medio, nel macro. […]
Posso rispondere nel micro se vogliamo completare il discorso. Nel micro la risposta sarebbe in qualche modo il mio mondo. Il mio mondo sarebbe dove lavoro. Che lavoro fai? Faccio il docente di filosofia. Allora che cosa vuol dire cattivo gusto per il mondo filosofico? Io trovo che ci sia una entropia qualitativa, diciamo così, nel mondo filosofico accademico in questo momento. Lo vedo nel luogo mio di osservazione – io insegno all’Università di Trieste – è evidente; ma mi dicono anche altrove. Ci sono tante cooperazioni, tante collaborazioni a questo atto negativo. Per esempio, mi sembra di cattivissimo gusto la riforma universitaria che è passata. Io ho sempre scommesso sugli studenti, se vogliamo dirla in modo un po’ più retorico sui giovani. Non è facile fare questa scommessa, perché a me passano anche davanti persone che portano i segni della stanchezza di questo loro continuare a essere i rappresentanti dei giovani che devono poi cambiare il mondo. Trovo che ci sia un respiro un po’ corto, talora. Anche perché intanto le maglie, come dire i dispositivi, sono chiuse. E quindi lì dentro è molto difficile stare. […] Ecco forse la questione di cui si parlerà dopo – la consulenza filosofica – quello lì potrebbe essere un piccolo cuneo. Sono un po’ pessimista, però. Mentre ho sempre letto Deleuze, il divenire, il divenire qualcosa, il divenire altro. Bisogna rilanciarle queste tematiche, bisogna rimetterle in movimento, insomma, perché c’è un po’ di stanchezza che si avverte.

E quindi proprio in questo senso, la filosofia, intesa come pratica, come esercizio, di cui ci parlerà poi, e proprio anche perché il progetto Letterature di Svolta è legato a un intervento nella realtà, nella trasformazione, quale può essere il ruolo, la funzione di una filosofia intesa in questo modo, come stimolo di trasformazione nella realtà?

Noi non ci conosciamo così bene – nessuno si conosce così bene – spero non siate degli intellettualisti; allora io vi rispondo come mangio. Spazi per pensare, allargare gli spazi. Crearsi degli spazi, crearsi dei tempi. Rallentare. Io ho qualche esempio in mente che ogni tanto mi accompagna. Per esempio le Lezioni americane di Calvino [I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, Milano 1988]. E lì tutto sommato ci sono degli avvertimenti abbastanza interessanti. Siamo troppo stretti. Non vorrei dire che siamo troppi. Siamo troppo stretti. E quindi la filosofia forse può dire, prendi tempo. Prendi tempo e prendi spazio. Perché questa cosa della filosofia va anche nell’azienda.

E quindi invece, questo che tu dici, è legato a un atteggiamento che chiunque di noi può assumere.
Beh! Io la vedo così la filosofia. Non ci vedo i professionisti… Certo ci sono, come dire, i facilitatori. Però riguarda tutti.

Prima ti avevo chiesto quale può essere la funzione della filosofia, e visto anche i trascorsi – il rapporto con il teatro – quale invece può essere la funzione della letteratura, dell’arte, della creatività in genere, in un processo di trasformazione?


Beh, io – come forse si è capito – non faccio una distinziosome ne secca. Non vedo nella filosofia una competenza disciplinare, come dire, tecnica: cioè abbiamo una disciplina che si chiama filosofia e tutte le figure caratteristiche, la storia come si dice, di questa disciplina. Io prima citavo Gille Deleuze; se ci fosse qui Gille Deleuze sarebbe molto felice di rispondere a questa domanda; ma io rispondo con le sue parole: e questa è già una risposta, nel senso che c’è un pudore, che secondo me deve essere messo in atto nel discorso filosofico, come contrasto al tono alto della filosofia; io vedo, sento i filosofi in televisione – si chiamano così quelli – allora io gli abbasserei il tono; magari certi altri arrivano e fanno anche la parte di quelli che si abbassano, se ci riescono; non tutti ci riescono, non ci si riesce del tutto; però secondo me bisogna andare in quella direzione lì. Detto ciò.
Il pensiero è un pensiero che si costruisce in modo fluttuante all’interno di questi campi. Io credo che la filosofia sia – come è stato detto dall’autore che ho appena citato – qualcosa di teatrale. Ci sia un teatro filosofico. Ci sia una scena, ci siano gli interpreti, ci siano i protagonisti. Il cogito, dice Deleuze, è un personaggio, e via di questo passo. Cosa si guadagna con questo, per esempio? Si guadagna una distanza. E cioè, non credere come vero quello che tu hai davanti agli occhi, oppure quello che stai proferendo. Quanti ambasciatori della verità sono accanto a noi, piccoli, grandi, medi, un po’ buffi a volte, strillanti o silenziosi, con la voce profonda altre volte; non vorrei fare nomi anche perché mi verrebbero in mente i miei amici e sarebbe una cosa molto brutta. Invece noi dobbiamo pensare che una scena filosofica è una scena, e c’è per esempio la finzione. C’è una finzionalità nel discorso filosofico, culturale ecc., che è forse la finzionalità buona – poi c’è anche quella cattiva; ci sono delle figure della finzione che sono figure spregevoli – ma c’è invece una modalità della finzione che è quella che passa attraverso tutte le caratteristiche che si ricordavano prima nella domanda. Io mi occupo parecchio di gioco, e credo che il gioco – al di là di essere un oggetto particolare di cui possiamo interessarci – è la modalità con cui dovremmo forse riuscire a metterci in un rapporto con i soggetti di cui stiamo parlando. Cioè un rapporto di gioco che vuol dire anche distanza sufficiente per cui questi oggetti si muovano e quindi producano qualche cosa, non siano bloccati; se non c’è gioco in senso meccanico, si blocca. […]

Quale immagine visiva associ all’idea di trasformazione? Quale immagine ti viene in mente legata a questo concetto?


In un certo senso ho risposto prima. Adesso… visivo, visivo non saprei. Ma diciamo da un punto di vista quasi visivo, concettuale-visivo, quello che associo alla parola trasformazione è sicuramente la questione della diminuzione della pesantezza. Se vogliamo un riferimento filosofico, Emmanuel Lévinas. E cioè il processo dall’appesantimento all’alleggerimento. In sostanza la trasformazione – mi viene voglia di parlare ancora di Calvino – va un po’ per aria come il cavaliere del secchio di Kafka; c’è un po’ un volare. Quindi la collego con un effetto un po’ aereo.

Mi sembra perfetto. Ci vuole davvero un po’ di leggerezza.


Non era certo questo che associavamo negli anni ’70 … Io ho appena finito di scrivere alcune pagine che sono l’introduzione di una serie di testi minori di Deleuze che si chiama Il deserto. Non è facile fare questa operazione, perché tu devi scrivere cinque pagine in cui deve finire dentro un mondo. E allora io ho rastremato la faccenda a un vissuto. Il vissuto, è una libreria di Milano, che è la libreria Il Sapere, in piazza Vetra, che esiste ancora: Deleuze che litiga insieme e contro, insieme a Guattari e contro gli psicanalisti, dopo che è uscito L’Antiedipo, siamo nel ’73 [G. Deleuze e F. Guattari, L’Antiedipo, 1972]. E si spendeva una parola che era rivoluzione. Non c’era questa immagine visiva della leggerezza, come ho cercato di proporla io, avendo l’assenso del mio intervistatore. Però se andiamo a grattare un poco… Era pesante l’immagine della rivoluzione. Un altro mondo. Se poi grattassimo e lavorassimo sulla libertà arriveremmo a qualcosa di analogo e in modo simile. Certamente poi lì è curioso, perché nella discussione – che ho raccontato in questo libro che uscirà – e lui, Deleuze, dice, bisogna liberarsi delle parole. Io c’ero, ma non mi ricordo la faccia di Guattari. Ma immagino una faccia un po’ sbalordita, perché le parole di cui Deleuze vuole liberarsi, sono mica parole qualsiasi; sono: macchina desiderante, schizzoanalisi. Tutte queste qua. Cioè le stesse che avevano convogliato la generazione di cosiddetti giovani, e che in qualche modo stavano diventando – lui vedeva questo rischio – stavano diventando delle parole-manifesto. Questo produsse un grande spiazzamento – non è che ci fu uno svenimento in sala per questo piazzamento – però, lui che non compariva mai, che forse non era mai uscito dalla Francia. Ci vedo rappresentata la figura del filosofo, un po’ questo discorso che stiamo facendo adesso della trasformazione, d’altra parte, forse l’espressione che non avrebbe cambiato, che andava bene, era una espressione come via di fuga. Allora trasformazione potrebbe essere associata a questa uscita dal territorio. Uso le sue parole perché sono comode. Innanzitutto perché io non credo alle persone che vengono a spiaccicare il loro pensiero. Ci siamo sempre appoggiati a qualche aiutino, a qualcuno che ci convince più di qualcun altro. Qui la citazione, secondo me, è anche una presenza morale, etica; è meglio citare, piuttosto che sparare cazzate.
 
(L'intervista è pubblicata su Progetto Arte - Journal 11, cittadellarte edizioni 2007)
 
Intervista a Vandana Shiva
19 settembre 2006, Torino Spiritualità


Vandana Shiva, scienziata, attivista politica, ambientalista; Direttore della Research Foundation for Science, Technology and Natural Resource Policy di Nuova Delhi

Libri consigliati da Vandana Shiva: Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, 1992 Tim Flannery, The Weather Makers. The History and Future Impact Change, 2005

La trasformazione di un sistema avviene quando almeno una delle sue variabili interne cambiano. Quali variabili interne del sistema sociale sono attualmente sottoposte a maggiore trasformazione?

Credo che la variabile più importante del nostro tempo sia il cambiamento economico, ciò che viene chiamato globalizzazione. E contrariamente a quanto si crede non sta avvenendo naturalmente, ma con molta violenza e molti inganni. I governi sono corrotti, la democrazia è stata distrutta per mettere in atto queste politiche. A partire da una serie di decisioni volte a dare una nuova forma all’economia, stiamo dando una nuova forma anche al pianeta, alla società, alle nostre menti, l’umanità sta cambiando. Francis Fukuyama ha scritto un libro intitolato La fine della storia e l’ultimo uomo [Peguin, 1992 / Rizzoli, 1992]. Io credo che, a causa del progetto della globalizzazione, stiamo vedendo la fine dell’umanità, il senso di ciò che significa essere umani. Essere umani vuol dire conversare come stiamo facendo, condividere il dolore e la gioia, riconoscere che nonostante le diversità siamo parte di una cosa sola, e non solo una specie tra altre specie umane, ma una specie insieme a tutte le altre. Stiamo per perdere per sempre la capacità di sentire la vita e di percepire cosa siamo, chi siamo, che genere di esseri siamo sulla terra. E contemporaneamente stiamo progettando azioni che minacciano, in modo biologico, fisico ed ecologico, la possibilità che l’umanità continui a esistere. Oggi non ci vuole grande immaginazione per pensare che tra 50, 200 anni, vista la violenza del cambiamento climatico, la distruzione delle risorse idriche e della nostra sicurezza alimentare – un argomento su cui lavoro da vicino – l’umanità non avrà la possibilità di vivere sulla terra come fa oggi. Un meccanismo innescato nel mondo economico ha finito per minacciare la sopravvivenza stessa della nostra specie.

Secondo lei, quali variabili dovrebbero invece essere soggette a una grande trasformazione? E che tipo di trasformazione?


Io ho proposto una trasformazione radicale che inizia da un cambiamento, e questo è il consolidamento del lavoro e del pensiero di tutta la mia vita. Nel mio ultimo libro intitolato Earth Democracy. Justice, Sustainability and Peace [South End Press, 2005], appena pubblicato anche in italiano, Il bene comune della terra [Feltrinelli, 2006], ho individuato un’unica variabile che può creare una cascata di effetti per risolvere i tre problemi che davvero minacciano la società e il pianeta: il problema della non sostenibilità, la tolleranza alle ingiustizie e la piaga della violenza e della guerra. Io ho provato personalmente – e credo che sia possibile che lo stesso possa essere vissuto da numeri ben più ampi di esseri umani – che, se ci si sente parte integrante dell’universo e del pianeta, un essere tra tante specie diverse, e si riconosce di far parte della famiglia della terra, ciò che io chiamo la base della democrazia della terra, la prima cosa che si comprende è che non si può sottrarre l’acqua a un fiume per alimentare la propria fabbrica. Bisogna essere consapevoli dei bisogni degli altri. Questo pone dei limiti alla distruzione delle risorse e da questo scaturisce la sostenibilità. Nel corso di questo processo si genera giustizia, perché si crea un sistema di condivisione. E non appena si ha la condivisione, si garantisce la pace, poiché la guerra nasce dall’avidità, dal tentativo di accaparrarsi le risorse di altri. Non ci sarebbero le guerre in Iraq e Afghanistan se gli Stati Uniti non avessero un’inesauribile fame di energia. Se avessero deciso di vivere con ciò che regala il sole, non avrebbero bisogno di invadere altri paesi.

Siamo nel 2068. Se apre la porta di casa, che scenario vede? E cosa le piacerebbe invece immaginare di vedere?

Lo scenario che vedo, se le tendenze attuali continuano senza cambiamenti adeguati, senza una trasformazione della società... è il 2068 e la casa in cui vivo potrebbe non esistere più, sommersa da un’inondazione, spazzata via dall’acqua, come è successo quest’anno alle case nel deserto del Rajasthan. Il deserto del Rajasthan, dove cadono 100 mm di pioggia, ha visto cadere 600 mm di pioggia in tre giorni; si è creato un muro d’acqua alto 4,5 metri che ha sommerso un deserto, e questo a causa del cambiamento climatico. Ovunque sarà allora la mia casa, sarà necessariamente barricata, armata. Ci saranno gruppi chiusi in lotta per la difesa tribale contro un sistema crollato così drammaticamente dal punto di vista sociale che non esiste più alcuna fiducia nella società e ognuno si protegge attraverso la difesa armata. Nel 2068 vedo l’opposto di ciò che normalmente viene paventata come minaccia, cioè l’esplosione della popolazione. Nel futuro vedo gli esseri umani privi della capacità sociale e biologica di occuparsi delle generazioni future. Stiamo letteralmente perdendo la pazienza necessaria, l’investimento della nostra vita che serve per pensare a lungo termine. Avverrà ciò che stiamo già vedendo nei paesi ricchi e nelle società ricche del Terzo Mondo: sarà un lusso avere dei figli. In un certo senso è l’idea già implementata nel regno vegetale con alcune tecnologie: non è necessario che ci sia un futuro. Consumate oggi, usate la ricchezza che esiste oggi! Questo per Monsanto significa produrre semi sterili; per la società che incarna questi stessi valori vuol dire non pensare al futuro, ma solo all’immediato presente. Il futuro, il 2068 verso il quale lavoro, e spero che sia il futuro che avremo e che immagino, ma che traduco anche nelle mie pratiche quotidiane, è un futuro di profonda ricchezza biologica. Ripongo le mie massime speranze nella salvaguardia ecologica – ma anche sociale e culturale – della biodiversità. La biodiversità, io credo, è legata alla possibilità di avere l’acqua. Se c’è la biodiversità, i fiumi scorreranno; se c’è biodiversità in una fattoria, si consumerà meno acqua. In caso di siccità, meno raccolti andranno persi. Ci sarà più cibo, la malnutrizione non esisterà e soprattutto non ci sarà disoccupazione, perché ognuno sarà in grado di avere mezzi di sostentamento. E legata alla biodiversità è la diversità culturale. Non si tratta solo di preservare le diverse culture che esistono, ma avere anche la possibilità di ritrovare quelle che sono state cancellate attraverso l’arte e la creatività, ricordando le abilità necessarie per intrecciare un cesto con gli scarti dei campi di granturco, o per usare ortaggi e piante per realizzare una splendida opera d’arte con una penna, in un villaggio. Questa creatività diventa il potenziale e la possibilità per l’ultima persona che abita questo pianeta.
(L'intervista è pubblicata su Progetto Arte - Journal 11, cittadellarte edizioni 2007)
 
 
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